Leggende
Le Janas di Roca ‘e Coronas
Nonostante le mani fossero ben ferme sull’ordito; i piedi,
nelle piccole scarpette di raso, fremevano irrequieti. Le altre donne, intente
a tessere, le lanciavano sguardi severi di rimprovero. “E vai, allora” sbottò
alla fine la più vecchia, la più saggia. Le compagne la guardarono stupite.
“Onzunu coghet in conca sua!” concluse la donna. La giovane a quelle parole,
sentì i piedi farsi ali e la musica farsi vento
che la spingeva fino alla piazza. Le altre fate, lasciato il telaio, si
affacciarono per vedere la loro amica danzare. A quei tempi c’erano poche case
e alle Janas che vivevano a Roca ‘e Coronas nessun ostacolo impediva la vista
sulla piazza del paese. Dotate di una vista eccezionale, le fate distinguevano
i cento colori degli abiti femminili. Il candore dei loro fazzoletti, il
brillare degli ori. In genere le Janas si limitavano ad osservare la vita degli
uomini, senza prendervi parte. Dimoravano nella rocca poco lontano dal paese,
ma ci si recavano di rado. I paesani favoleggiavano del tesoro delle fate
nascosto in un passaggio segreto che collegava la roccia al nuraghe di Luche.
Le Janas non amavano queste dicerie. Non temevano per loro, esse erano
immortali, ma per gli umani che sapevano capaci di tutto pur di possedere le
cose e le persone. Nello stesso tempo le piccole fate provavano una certa
indulgenza nei confronti delle debolezze umane. Avevano pena, in particolare,
delle donne come loro. Le vedevano faticare gravate dal lavoro, dai figli,
dalla miseria e ogni tanto facevano loro un piccolo dono. Un giorno la Jana
maggiore apparve ad una donna saggia del paese. ”Non stupirti!” le disse “ma
abbi fiducia”. Le diede un piccolo involucro. “Metti questo nell’impasto per il
pane e vedrai la differenza”. La donna nonostante la diffidenze delle comari,
aggiunse “Sa madrighe”, dono della fata, all’impasto. Questo cominciò a
gonfiarsi come un ventre gravido, le donne ne presero piccole porzioni, fecero
dei pani tondi come il sole e li infornarono. A contatto con il calore il pane
si sollevò come una bolla, per poi sgonfiarsi con un sospiro. Le donne lo
tolsero al fuoco, ne ricavarono due dischi che rimisero nel forno per dorarli.
“Sa madrighe” rimase patrimonio delle donne che lo passarono da una generazione
all’altra. La giovane Jana, intanto, era arrivata nella piazza gremita e
rimaneva in disparte, intimidita dal cerchio di uomini e donne. Poi la catena
si ruppe e due mani si protesero in segno di invito. La Jana, tremando, entrò
nel ballo, le mani forti e dure imprigionarono le sue piccole e delicate. Al
suono delle canne i suoi piedi cominciarono a muoversi, come dotati di vita
propria. Il cerchio si allargava, si restringeva, il ritmo calava per poi
aumentare. La Jana non pensava a niente, smarrita nella danza. Fu una voce a
rompere la magia: “Jana, mia Janitta! Unu buttone dae sa manighita ti che sunt
furende!”, gridavano in coro le Janas di Roca ‘e Coronas. Il ballo i fermò
all’istante, rimasero isolati la Jana e il suo cavaliere, che con destrezza
aveva cercato di strapparle un bottone d’oro dalla manica del costume. La
giovane si sciolse dal braccio dell’uomo e, svelta come era arrivata, fuggì con
lacrime agli occhi, per tornare dalle sue sorelle. Il giovane venne
imprigionato e duramente punito. Nessuno, in paese, quella notte riuscì a dormire. I paesani temevano l’ira delle
fate, le Janas meditavano sul da farsi. La mattina, all’alba, una processione
di piccole donne discese dalla collina. Gli abitanti di Illorai le osservavano
da dietro gli usci. Tutto era silenzio. Arrivate alla fonte all’ingresso del
villaggio, le Janas si voltarono verso il paese ingrato e scandirono con voce
chiara la loro maledizione: “ILLORAI, ILLORODDU NO BALES UNU SODDU, NE SODDU NE
SISINA, ILLORAI CHISINA!”.
S’Ira e su Polattu Mannu
Si narra che in epoca spagnola (intorno al 1500/1700 ) a
Illorai vivevano i Conti, di origine sarda, che riscuotevano le tasse per il re
di Spagna, in quanto anche il paesino al tempo era una contea reggia. Per
parecchi mesi dell’anno vivevano a Illorai, poi si trasferivano a Orune. Vicino
alla casa dei Conti vi era una fontana, forse la più importante di Illorai
(ancora presente, dietro la cabina), dove
tutte le ragazze andavano per prendere l’acqua con le loro brocche. I
Conti non peccavano certo di gentilezza e galanteria, al contrario erano
lascivi e maleducati e pensavano di potersi approfittare di queste ragazze,
provocandole e dicendo loro delle volgarità. L’episodio che fu la goccia che
fece traboccare il vaso fu quello di una giovane ragazza che venne adescata da
un Conte che, dopo aver lanciato volontariamente il suo fazzoletto fuori dalla
finestra, esortò la giovane a raccoglierlo e portarglielo su. Così si
approfittò di lei. Dopo questo ennesimo avvenimento gli uomini del paese
decisero di vendicarsi e il giorno di Pasqua aspettarono i Conti all’inizio di
Via XI Settembre, dove li accoltellarono mentre stavano andando in chiesa. Si racconta che il sangue scorse fino al
piazzale della Chiesa. Questa fu la vendetta degli Illoraesi nei confronti di questi uomini crudeli, conosciuta infatti
come “S’Ira de su Polattu Mannu”.
La leggenda
di Pont'Ezzu.
Sul
ponte di Illorai esiste una leggenda tramandata fin dai tempi remoti, che
accomuna buona parte dei ponti che hanno la stessa struttura di Pont'Ezzu (a
schiena d'asino).
La
leggenda narra di un pastore, che col suo gregge aveva la necessità di passare
da una sponda all'altra del fiume Tirso, che in quel momento era in piena.
L'uomo, disperato perchè non sapeva come fare, si sedette nella sponda del
fiume ed iniziò a borbottare "Come sono disgraziato", "Come farò
ad attraversare il fiume"... Proprio in quel momento gli apparve il
demonio, che cercò di stipulare un patto con l'uomo e gli disse: <<Io
costruirò un ponte per far attraversare te ed il tuo gregge, ma solo se sei disposto
a darmi qualcosa in cambio>>. L'uomo rimase sorpreso, ma avendo necessità
di attraversare il fiume non esitò nell'accettare e chiese al demonio cosa
avrebbe voluto avere. Egli, prontamente, gli rispose che avrebbe ricevuto la
prima anima che avesse attraversato il ponte. Il pastore acconsentì ed il
diavolo, con un atto di magia, fece comparire il ponte ed aspettò di ricevere
ciò che gli spettava. Nel vedere l'opera compiuta, il pastore rimase molto
sorpreso; allo stesso tempo però era molto combattuto poichè non voleva
attraversarlo per primo o la sua anima sarebbe diventata del diavolo. Escogitò
così un astuto piano: nella borsa che portava con sé aveva della carne secca,
la prese e la lanciò sul ponte. Il cane che era con lui subito si fiondò a prendere
il pezzo di carne e così fu lui ad attraversare per primo il ponte. Il diavolo
non si rese conto che non si trattava di una persona e così prese l'anima del
cane. Solo in un secondo momento si accorse di essere stato preso in giro dal
pastore e scomparve in una scia di fumo.
Luche
Si narra che anticamente Illorai
fosse suddiviso in sette paesini sparsi tutti intorno alla zona dove ora sorge
Luche. Vista la vicinanza di questi paesini al fiume incombeva la malaria e
quindi, viste le numerose morti, i capi-villaggio si riunirono per decidere
cosa si potesse fare per evitare questa pestilenza. Dopo aver riflettuto
decisero che tutti gli abitanti di questi sette paesi si sarebbero riuniti e
trasferiti in collina, dove l’aria era più salubre, e li avrebbero fondato un nuovo
paese che poi sarebbe diventato Illorai. Tutti gli abitanti iniziarono a
mettersi in viaggio e portarono con loro tutte le cose più importanti tra cui
anche i Santi Patroni. La leggenda narra che la statua che ancora oggi è
situata sopra il nuraghe all’interno del Santuario, fosse la statua della
Patrona di uno di questi villaggi; fu messa su un carro a buoi, legata e messa
in sicurezza, e dopo aver superare Pont’Ezzu si arrivò a Luche. A quel punto i
buoi non si vollero più muovere, anche spronandoli erano diventati immobili.
Alla fine gli uomini presero atto del fatto che la Madonna non voleva essere
trasferita a Illorai e che il Santuario a lei dedicato doveva essere costruito
li in quel punto dove si erano fermati i buoi.
Un particolare ringraziamento alla nostra bibliotecaria di fiducia per averci raccontato queste bellissime leggende!
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